la supremazia regolativa della coscienza in uno stato di diritto

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In uno Stato di diritto, la legittimità dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario non è autosufficiente: poggia sulla dignità e sulla responsabilità dell’individuo.

Per questo il “potere etico” della persona non è un quarto potere accanto agli altri, ma un potere sopra di essi in senso regolativo e fondativo.

La sua supremazia non è gerarchica (non emana ordini), ma criteriale: stabilisce il limite invalicabile di ciò che i poteri possono legittimamente chiedere.

Che cosa significa “supremazia” in questo contesto? non significa che ogni coscienza personale vinca sempre sulla legge positiva; significherebbe licenza all’arbitrio.

Significa che nessuna legge o ordine può pretendere obbedienza quando esige dall’individuo un male intrinseco (violare la dignità altrui o la propria) o quando nega la sua capacità di giudizio. In altre parole, la coscienza personale è l’ultima istanza di responsabilità: non può delegarla totalmente, neppure allo Stato.

Questa supremazia è coerente con il costituzionalismo, infatti le democrazie costituzionali riconoscono diritti inviolabili e doveri inderogabili: la persona non è mezzo ma fine.

La separazione dei poteri serve a impedire la concentrazione arbitraria; ma il controllo ultimo si attiva quando un cittadino dice: qui la legge tradisce la sua ragion d’essere.

Questo non è anti-istituzionale: è ciò che fondò i diritti contro il potere assoluto e che tuttora alimenta riforme giuste (si pensi alla disobbedienza civile come leva di avanzamento dei diritti).

Vi sono tre considerazioni da sviluppare che potrebbero farci pensare ad una devianza del concetto:

Relativismo e conflitto di coscienze.

Se la coscienza regola tutto, come evitare il caos? 

Dobbiamo ancorare il giudizio a standard pubblici condivisibili: principio di dignità, non-violenza, proporzionalità, pubblicità delle ragioni, disponibilità a subire sanzioni quando la legge vigente è violata per un bene superiore.

La coscienza si fa responsabile e argomentativa, non capriccio.

Fanatismo morale.

Il rischio esiste quando la coscienza pretende di imporre agli altri la propria verità.

Basta far diventare la ragione pubblica e trasparente: ciò che si invoca deve poter essere giustificato con argomenti accessibili a tutti, non con presupposti esoterici o settari.

Paralisi dell’azione pubblica.

Si teme che l’obiezione diffusa blocchi servizi essenziali.

Basterebbe progettare procedure che bilancino tutele individuali e continuità del servizio (obiezione sì, ma con dovere di rinvio, sostituzione, trasparenza; e con valutazioni d’impatto sui terzi).

Pertanto in che modo è lapalissiano che l’etica dell’individuo “sovrasta” i tre poteri senza distruggerli?

Legislativo, esecutivo e giudiziario bisognano di cittadini capaci di giudizio morale: senza tale base, la legalità degenera in mera conformità procedurale, e la separazione dei poteri diventa tecnica senza senso.

Il potere etico opera come campo gravitazionale della democrazia: invisibile, ma senza di esso le orbite istituzionali si scompongono.

Non chiede obbedienza cieca; chiede verità e responsabilità.

È un potere che, paradossalmente, si manifesta limitandosi: non impone progetti sostantivi di vita buona, ma custodisce lo spazio in cui ciascuno può perseguirla senza violare la dignità altrui.

Implicazioni pratiche e strada di costruzione per definire il primo potere sono interconnesse in un percorso sociale che oggi è molto lontano dall’essere operativo.

Dobbiamo sforzarci tutti di lavorare per  queste quattro attuali e minime strade. 

Una vera Educazione civica forte: la coscienza non è un istinto, si forma.

Protezione dei “parlanti veritieri” (giornalisti, docenti, funzionari, whistleblower): senza di loro il potere etico resta muto.

Trasparenza algoritmica e accountability: quando deleghe di potere passano a sistemi opachi, il cittadino perde l’oggetto su cui esercitare il giudizio morale.

Etica delle professioni pubbliche: chi esercita pubblici poteri ha un dovere rafforzato di coscienza critica (non basta dire “me l’hanno ordinato”).

Il potere etico non si propone come “Primo potere” che comandi gli altri: ma come un criterio superiore che li giustifica e limita.

La sua verità pratica si misura nella capacità di preservare tre beni insieme: dignità della persona, efficacia delle istituzioni, pluralismo dei valori.

Rigore teorico e concretezza istituzionale, strumenti che insegnano che la supremazia del potere etico dell’individuo non è un’utopia moralistica, ma la condizione di possibilità di ogni autentico Stato di diritto.

L’assioma che pone il potere etico dell’individuo come supremo in uno Stato di diritto afferma che ogni istituzione trae legittimità dalla dignità e dalla coscienza morale della persona.

Questo potere non è strumento di comando, ma criterio di limite e legittimazione.

Eppure, osservando la prassi politica italiana degli ultimi decenni, si registra una costante distorsione: i governi, in forme diverse e con intensità variabile, hanno confuso il potere etico con il potere personale, cioè con la propria volontà soggettiva di governanti e maggioranze, scambiando la coscienza pubblica con il proprio io politico.

Il potere etico richiede responsabilità e autocontrollo: esso vincola anche il legislatore e l’esecutivo a un principio superiore, che è il rispetto della persona e dei diritti fondamentali.

La sua “supremazia” non si misura in decreti o percentuali elettorali, ma nella capacità di garantire un ordine giuridico compatibile con la dignità umana.

I governi italiani, invece, hanno spesso personalizzato questo principio, traducendolo in un atto di auto-investitura morale: ciò che il leader o la maggioranza ritiene “giusto” diventa automaticamente legittimo, indipendentemente da ogni limite costituzionale o da ogni esigenza di confronto pluralista.

Ne deriva una confusione fra etica e volontà personale, che mina le basi stesse dello Stato di diritto.

L’esecutivo in carica incarna in modo esemplare questa distorsione.

La retorica politica ha spesso presentato le proprie scelte come inevitabili, naturali, eticamente fondate semplicemente perché derivanti dalla maggioranza parlamentare o dal mandato popolare.

Tra queste ci piace ricordare la soppressione di commissioni scientifiche o di organi di garanzia che è stata giustificata come “atto di verità e coraggio politico”, quando in realtà ha significato ridurre il pluralismo e spegnere voci critiche.

Qui l’“etica” è stata identificata con la volontà personale del ministro.

Ma anche, in tema di sicurezza e immigrazione, il potere etico è stato sostituito dalla logica della propaganda: l’idea che proteggere i cittadini significhi semplicemente rafforzare confini e fare repressione, senza interrogarsi sul rispetto della dignità umana dei migranti e sulla necessità di integrare nella matrice esistente chi arriva e non nello sfaldare la matrice per far entrare chi arriva.

Per non parlare poi che nella scuola e nella sanità, i tagli o i mancati investimenti sono presentati come scelte “responsabili” per il bene comune, ma senza tenere conto del criterio etico fondativo: la tutela della persona come fine in sé e non come mezzo per equilibri di bilancio o vantaggi elettorali.

In questi casi, la coscienza etica è stata piegata a auto-legittimazione: non è il cittadino a ricordare al potere i suoi limiti, ma il potere che si proclama depositario dell’etica collettiva.

Il fenomeno non è esclusivo dell’attuale esecutivo: anche i governi precedenti, seppur in forme diverse, hanno replicato lo stesso fraintendimento, a mero esempio il berlusconismo ha incarnato il potere personale elevato a norma pubblica: ciò che giovava al leader coincideva con il bene del Paese.

Il potere etico, anziché limite, divenne sinonimo di libertà d’impresa e di autoreferenzialità politica; peggio ancora i governi tecnici che hanno rivendicato la “neutralità etica” delle proprie decisioni, identificando la coscienza morale con la razionalità economica.

Anche qui la supremazia del potere etico è stata confusa con la volontà di alcuni tecnocrati, sottraendo i cittadini alla possibilità di contestare i presupposti delle scelte.

Alla fine dei nostri esempi le stagioni progressiste hanno spesso sostituito l’etica con la retorica della modernità: ciò che era nuovo o “europeo” era automaticamente giusto.

L’etica come dignità dell’individuo veniva sacrificata al mito del progresso inevitabile, riducendo la coscienza critica a mero conformismo politico.

In tutti questi casi, il potere etico, che avrebbe dovuto essere fondamento critico e limite superiore, è stato ridotto a legittimazione personale o ideologica.

La confusione tra potere etico e potere personale produce tre effetti gravi quali l’erosione della fiducia pubblica: quando i cittadini percepiscono che l’etica è strumentalizzata dal potere, si diffonde disincanto e cinismo, una pericolosa deriva autoritaria: la proclamazione di un potere personale come “etico” rende difficile il controllo democratico, perché l’opposizione può essere liquidata come immorale o nemica del bene comune, ma peggio di tutti l’atrofia della coscienza civica: se il potere etico è monopolizzato dai governi, l’individuo rinuncia al proprio ruolo critico e diventa mero esecutore o spettatore.

Ristabilire la distinzione è cruciale: il potere etico non appartiene al governo, ma a ciascun cittadino.

Le istituzioni hanno il dovere di rispettarlo, non di farsene portavoce esclusivo.

Ciò richiede Istituzioni trasparenti, capaci di accettare critiche e dissenso come risorsa etica, non come ostacolo, Educazione civica reale, che formi coscienze capaci di riconoscere e opporsi alla strumentalizzazione del potere, Pluralismo delle fonti di verità (scienza, stampa, magistratura, opinione pubblica), che impedisca la concentrazione etica nelle mani di un leader o di un governo.

Il nodo centrale è questo: i governi italiani, attuale compreso, hanno spesso scambiato l’etica come limite con l’etica come prerogativa personale.

In tal modo hanno trasformato il potere etico in uno strumento di auto-legittimazione (sono al potere quindi ho ragione), svuotandolo della sua funzione critica.

Il risultato è un paradosso: ciò che dovrebbe proteggere i cittadini dai soprusi del potere viene usato dal potere stesso per rafforzarsi.

Un autentico Stato di diritto può reggersi solo se l’etica rimane nelle mani degli individui: coscienza, responsabilità e dignità personale sono la vera “prima istanza” che nessun governo può arrogarsi senza tradire la sua stessa ragione d’essere.

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