Ma sarà proprio colpa del cellulare?

Negli ultimi giorni il ministro Valditara ha ribadito l’intenzione di rafforzare il divieto di portare i cellulari a scuola.
Una mossa che sembra fatta apposta per strappare un applauso facile a chi vede nei ragazzi solo un esercito di svogliati con lo sguardo fisso sullo schermo.
Un provvedimento simbolico, certo, ma che non ha nulla a che vedere con i problemi reali della scuola italiana.
Il punto è semplice: se gli studenti preferiscono passare il tempo sul cellulare piuttosto che ascoltare una lezione, il problema non è lo smartphone.
È la scuola che non riesce più a interessarli.
E qui sta la verità che nessun ministro vuole affrontare: i ragazzi non vedono più nel liceo e negli altri percorsi scolastici un valore.
Un provvedimento che, al di là delle apparenze, non rappresenta un’innovazione sostanziale: i regolamenti scolastici già consentono ai dirigenti di limitare l’uso dei dispositivi elettronici durante le lezioni.
Si tratta quindi di una misura più simbolica che realmente incisiva, che però apre una questione pedagogica e politica ben più ampia.
Il problema, appunto, non è il cellulare, bensì il rapporto che i giovani hanno con la scuola.
Se uno studente percepisce lo smartphone come più interessante della lezione, il vero nodo non è la distrazione tecnologica, ma la mancanza di senso attribuita all’istituzione scolastica.
Numerosi studi di pedagogia contemporanea — da Bruner a Morin — sottolineano che l’apprendimento è efficace solo se lo studente riconosce nella conoscenza un valore per la propria vita.
Laddove questo legame viene meno, l’allievo cerca altrove stimoli, identità e comunità, trovandoli oggi soprattutto nel mondo digitale.
È dunque necessario interrogarsi sul perché i ragazzi non vedano più nel percorso scolastico un investimento per il loro futuro.
Qui il nodo è storico: il liceo italiano, nato nell’Ottocento come scuola d’élite, ha conservato fino a pochi decenni fa un valore sociale indiscusso.
Oggi, tuttavia, quel valore appare radicalmente ridimensionato.
Il diploma non garantisce più né l’accesso a un’occupazione qualificata né la certezza di un riconoscimento sociale.
A questo si aggiunge un impianto didattico ancora eccessivamente nozionistico, incapace di fornire quelle competenze trasversali — spirito critico, capacità di risolvere problemi, cittadinanza digitale, educazione interculturale — che la società contemporanea richiede.
Da un punto di vista pedagogico, quindi, il divieto del cellulare rappresenta un provvedimento esterno al problema, banale fumo negli occhi.
È, in termini educativi, una misura di controllo e non di crescita.
Si agisce sul sintomo — la distrazione degli studenti — senza affrontare la causa, cioè la crisi di senso della scuola.
È un approccio che ricorda le logiche disciplinari di stampo ottocentesco, dove l’ordine era considerato il prerequisito dell’apprendimento, ma che oggi risulta anacronistico.
Le neuroscienze e la psicologia dell’educazione dimostrano che l’attenzione non si ottiene con la repressione, ma attraverso la motivazione intrinseca.
Sul piano politico, poi, la scelta rivela un tratto populista.
Si preferisce individuare un nemico immediatamente riconoscibile — il cellulare, simbolo delle nuove generazioni viste come indisciplinate — piuttosto che avviare una riforma strutturale.
Eppure la scuola italiana avrebbe bisogno di un progetto di lungo periodo, capace di ridisegnare programmi, metodi e finalità educative.
La posta in gioco non è l’ordine in classe, ma la capacità di formare cittadini competenti, critici e partecipi della vita democratica.
In conclusione, il dibattito sul cellulare rischia di essere un diversivo.
Se Valditara, ammesso che ne sia capace, vuole davvero incidere, deve avere il coraggio di ammettere che la scuola italiana non funziona.
Deve aprire un dibattito onesto sulla necessità di rivoluzionare programmi, metodi e finalità.
Ma è molto più comodo raccontare che il problema sono i cellulari.
Peccato che, continuando così, i giovani continueranno a percepire la scuola come un luogo inutile e il Paese continuerà a formare generazioni che non credono più nell’istruzione.
La vera sfida è restituire alla scuola italiana un valore riconosciuto, affinché i giovani non la vivano più come una perdita di tempo, ma come un luogo dove imparare a leggere il mondo e a costruire il proprio futuro.
Senza questo salto di qualità, ogni misura repressiva rischia di trasformarsi in un gesto retorico, incapace di incidere realmente sulla formazione delle nuove generazioni.
Commenti dagli Esperti.
pubblichiamo le osservazioni giunte in redazioni dal dott. Marco Ugo Filisetti, ex Direttore Generale del Ministero dell’istruzione.
il Ministro Valditara Da un lato scrive una circolare che prevede il divieto di distrarsi con l’uso del cellulare durante le lezioni se non utile per le attività didattiche ,che è una ovvietà (allora perché non anche una circolare per vietare di leggere i fumetti durante le lezioni), poi dice di aver disposto il divieto di portare i cellulari a scuola (come fossero un’ arma) perché potenzialmente utili a distogliere l’attenzione e che comunque è altra cosa rispetto a quello che scrive.
A questo punto però dovremmo aspettarci anche una prossima circolare ad esempio che vieta di portare lenti d’ingrandimento perché consentono di guardare meglio le gambe delle compagne di classe o lo sguardo del compagno ” bel tenebroso” .
Divieto sul quale si potrebbe avere anche qualche dubbio di legittimità , dovendo ammettere magari anche il divieto di portare il rosario…
Appare ovvio che qualunque attività incompatibili con lo svolgimento dell’attività didattica debba essere vietata agli alunni e al personale scolastico. prescindere dal fatto che avvenga con l’impiego o meno del “telefonino”.
Altro tema è la “dipendenza ” dei giovani dai “telefonini “, che certamente merita attenzione.
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