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Viviamo in un mondo che, giorno dopo giorno, si avvelena.

Non soltanto per le polveri sottili che respiriamo o per i mari che si riempiono di plastica, ma per un inquinamento ben più sottile e pericoloso: quello della violenza diffusa.

Una violenza che non si manifesta soltanto nelle cronache nere, nei conflitti armati o nei fenomeni di bullismo che tanto spesso scuotono le scuole, ma che abita le pieghe del linguaggio, i toni esasperati del dibattito pubblico, le fratture ideologiche che dividono le famiglie e, soprattutto, la fragilità emotiva dei più giovani.

Da un punto di vista pedagogico, il problema è evidente: quando la violenza diventa lo sfondo “normale” della vita quotidiana, i bambini crescono immersi in un contesto tossico che mina lo sviluppo armonico della loro personalità.

Maria Montessori già avvertiva che “il bambino assorbe con facilità ciò che lo circonda”, e che proprio per questo l’ambiente rappresenta il primo grande educatore.

Se l’ambiente è impregnato di conflittualità, di parole urlate e di rancore, il bambino non può che riprodurli, trasformando la società futura in una cassa di risonanza dei veleni di oggi.

Lorenzo Milani, dal canto suo, parlava della necessità di “dare la parola ai poveri”, intesa non solo come strumento di emancipazione ma come educazione alla convivenza civile.

Eppure oggi sembra che la parola non venga donata, ma brandita come un’arma: non dialogo, ma slogan; non ascolto, ma sopraffazione.

La violenza verbale è diventata la grammatica dei social network, mentre la violenza ideologica impregna il discorso politico e culturale, spingendo i bambini a percepire la contrapposizione come unica modalità di relazione.

Da questa prospettiva, il problema non è soltanto educativo, ma antropologico.

La pedagogia italiana contemporanea ha provato a leggere questo cambiamento, evidenziando come la dimensione emotiva ed empatica sia stata progressivamente sacrificata.

In tal senso, il mio libro Il bambino 4.0  offre uno spunto decisivo: il bambino della società iperconnessa rischia di trasformarsi in un “prodotto” tecnologico, immerso in un contesto che pretende velocità, efficienza, performance, ma che raramente gli restituisce spazi di autenticità e protezione emotiva.

È proprio in questa contraddizione che il mondo si fa tossico: quando l’infanzia non è più un tempo di crescita e di esplorazione, ma un terreno contaminato da pressioni, aspettative e conflitti adulti.

La pedagogia ci insegna che non esistono scorciatoie.

Non basta limitarsi a denunciare il degrado, occorre ricostruire ambienti educativi sani, in cui la parola torni ad avere un valore dialogico e la relazione a fondarsi sul rispetto reciproco.

Montessori parlava di “educazione come arma di pace”; Milani ricordava che “sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica”.

Oggi queste frasi assumono una nuova urgenza: restituire ai bambini un mondo non avvelenato, in cui la violenza non sia normalità ma eccezione, rappresenta l’unica via per assicurare alla società un futuro meno tossico.

Il compito spetta a genitori, insegnanti, istituzioni e – più in generale – a tutti gli adulti.

Perché ogni parola detta davanti a un bambino, ogni conflitto vissuto in casa, ogni messaggio che veicoliamo attraverso i media, diventa parte del suo bagaglio educativo.

Se continueremo a vivere in un mondo tossico, saranno loro, i bambini, a pagarne il prezzo più alto.

E sarà la pedagogia del futuro a dover curare le ferite di una generazione cresciuta respirando veleno.

Questa ultima non è solo una metafora, ma una previsione concreta.

I bambini, a differenza degli adulti, non dispongono di difese strutturate per filtrare la violenza del mondo che li circonda.

L’adulto, pur nella sofferenza, possiede strumenti cognitivi, esperienze pregresse, reti di supporto sociale che, in parte, fungono da barriera.

Il bambino no: ogni parola dura, ogni immagine di conflitto, ogni tensione assorbita in casa o a scuola penetra direttamente nella sua psiche, sedimentandosi senza filtri.

Il risultato è una cascata di danni emotivi ed educativi che spesso diventano irreparabili.

Ansia, depressione, disturbi relazionali, difficoltà di apprendimento: sono solo alcune delle conseguenze più visibili di una crescita immersa nella tossicità.

Ma vi sono anche cicatrici silenziose, che emergono anni dopo, nella vita adulta, sotto forma di incapacità a gestire i conflitti, relazioni fragili, perdita di fiducia nel prossimo.

Queste ferite invisibili non resteranno circoscritte alle biografie individuali: diventeranno un costo sociale.

Ogni bambino che cresce senza protezioni adeguate contro la violenza emotiva sarà, domani, un adulto che avrà bisogno di più sostegno psicologico, sanitario, educativo e sociale.

Non è un caso che numerosi studi di pedagogia e di psicologia dell’infanzia confermino la correlazione tra traumi precoci e spesa pubblica futura in ambito sanitario, giudiziario e assistenziale.

Gli stati, nel prossimo futuro, saranno costretti a investire ingenti risorse economiche per affrontare le conseguenze di ciò che oggi si sottovaluta: la tossicità di un mondo che non filtra la propria violenza davanti ai bambini.

In questa prospettiva, la pedagogia del futuro non sarà un lusso accademico, ma una necessità politica ed economica.

Sarà chiamata a curare ferite profonde, con strumenti nuovi e una responsabilità collettiva: salvare una generazione cresciuta avvelenata da ciò che gli adulti non hanno saputo o voluto contenere.

Se non avremo il coraggio di disintossicare l’infanzia dalle violenze che oggi la avvelenano, il prezzo da pagare sarà un domani fatto di adulti fragili, incapaci di costruire comunità sane: il vero fallimento non sarà dei bambini, ma di noi adulti che avremo consegnato loro un mondo tossico, facendoceli vivere senza difese.

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