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Il Ministro Valditara ha annunciato una nuova misura: la presenza di uno psicologo in ogni scuola italiana.

A prima vista, l’iniziativa appare sensata.

È noto a tutti che il disagio giovanile è in aumento: ansia, depressione, difficoltà relazionali e persino autolesionismo sono ormai fenomeni che non riguardano più solo marginali casi isolati, ma intere generazioni.

Lo psicologo, dunque, sembrerebbe lo strumento naturale per intercettare e gestire tali fragilità.

Ma proprio qui si apre il problema.

La figura dello psicologo, seppur di per sé stessa figura validissima, diventa la risposta di uno Stato che certifica la propria impotenza.

È come mettere una medicina senza mai affrontare la malattia, tamponare una ferita senza curarne le cause.

Che i giovani abbiano bisogno di sostegno psicologico è indubbio; che lo Stato arrivi a istituzionalizzare questa necessità equivale, però, a dichiarare il fallimento delle politiche educative e sociali che avrebbero dovuto prevenire quel disagio.

È la certificazione ufficiale del fallimento delle politiche educative, familiari e sociali.

Non abbiamo saputo prevenire il disagio, non abbiamo dato strumenti culturali e morali, non abbiamo costruito comunità sane.

Che si fa? Si mette un medico accanto alla cattedra.

Una pillola al posto della pedagogia.

Inoltre, la misura appare monca: se si accetta il principio della “figura specializzata a supporto”, perché fermarsi allo psicologo?

Allora servirebbe anche un pedagogista, cioè un professionista capace non solo di ascoltare, ma di intervenire in modo strutturato sul percorso formativo dei ragazzi, sulle dinamiche didattiche, sulle strategie educative degli insegnanti.

Lo psicologo cura, il pedagogista costruisce.

Senza quest’ultimo, si rischia di ridurre tutto a un approccio clinico, delegando ai sintomi la verità del problema.

Qualcuno potrebbe obiettare: e se la questione fosse più grave?

In tal caso, non servirebbe lo psicologo ma lo psichiatra, con strumenti ben più radicali.

Ma così si slitta in un paradigma ancora più riduttivo: la scuola trasformata in clinica, il giovane trasformato in paziente.

Eppure l’educazione non è – non dovrebbe mai essere – ospedalizzazione dell’esistenza.

Il nodo vero, che la proposta ministeriale non affronta, è che i giovani non hanno solo bisogno di diagnosi, ma di senso.

Una società che non offre strumenti di comprensione etico-filosofica, che non fornisce modelli di virtù e responsabilità, che non restituisce orizzonti di significato, rischia di ammalarsi a livello spirituale ancor prima che psicologico.

E allora, se vogliamo davvero giocare a integrare figure specialistiche, perché non aggiungere un teologo? O un confessore?

Non per imporre una fede, ma per offrire spazi di riflessione sull’anima, sul mistero dell’esistenza, sul rapporto tra individuo e comunità.

Il giovane non è solo mente da ricalibrare, né solo comportamento da correggere: è persona in ricerca, identità in costruzione, coscienza che necessita di strumenti di orientamento.

In questa prospettiva, lo psicologo non basta.

La scuola ha bisogno di un progetto educativo complessivo, non di una toppa sanitaria.

La vera domanda che dovremmo porci è: vogliamo davvero formare cittadini liberi, maturi, capaci di affrontare la vita? Oppure preferiamo produrre pazienti cronici da gestire con figure tecniche?

Se la seconda ipotesi è quella che stiamo perseguendo, allora la misura del ministro Valditara non è che l’ennesima dichiarazione di resa dello Stato di fronte al disagio giovanile.

Il punto è che stiamo trasformando la scuola in un ospedale.

Non più luogo di crescita, ma pronto soccorso delle nevrosi sociali.

Eppure i ragazzi non chiedono diagnosi: chiedono senso.

Chiedono di capire chi sono, dove vanno, perché vivere.

Queste domande non si curano con la ricetta medica.

Non basterà mai uno psicologo per sostituire ciò che manca, ovvero un’educazione che restituisca ai giovani la possibilità di ritrovare se stessi e la propria anima.

La verità è che l’idea dello psicologo in ogni scuola non è una risposta, ma un alibi.

Un modo per dire: “abbiamo fatto qualcosa”, senza toccare i veri problemi.

Perché i veri problemi sono un sistema educativo svuotato di valori, una società che non offre modelli credibili, uno Stato che non sa più educare ma solo medicalizzare.

Le “verità” effimere di Valditara

 

Il Baratro Educativo, alla ricerca continua del popolo Bue.

Egregio Ministro, così non ci siamo!

Sutor, ne ultra crepidam!

 

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